In Spagna,
Grecia, Francia, Portogallo ed anche in Irlanda, cioè in quei paesi dove la
crisi causata dal modello neoliberista si è fatta sentire con maggiore
virulenza, le sinistre sono cresciute, mentre in Italia, dove la situazione non
è di certo allegra, il malcontento viene assorbito dal movimento 5 stelle e
alla sinistra non restano che le briciole. Di questo, ma anche di altro, ne
parliamo con il compagno Dino Greco, dirigente di Rifondazione Comunista, per
cercare di capirne di più.
Prima di
addentrarci nei problemi del presente, credo che sia interessante spendere
qualche parola sul momento in cui il dominio neoliberista ebbe inizio, mi
riferisco al triennio 1979-1981 quando la Thatcher prese il potere in Gran Bretagna
e Reagan negli Usa. Da quel momento, la sinistra allentò sempre più la sua
resistenza al mantra neoliberista secondo cui l'inflazione, vista come il male
assoluto, doveva essere controllata disciplinando il mondo del lavoro - in
questo i sindacati hanno delle chiare responsabilità - e la competitività delle
imprese doveva essere perseguita attraverso la radicale messa in discussione
delle rigidità del mercato del lavoro. La ricerca empirica ci dice che la
precarizzazione dei rapporti di lavoro non solo non conduce verso un incremento
dell'occupazione, come promesso dai neoliberisti, ma non determina nemmeno un
incremento della produttività. Insomma, siamo di fronte a un modello
fallimentare. A suo avviso, cosa avrebbe dovuto fare la sinistra in quegli anni
per resistere efficacemente all'onda del monetarismo che iniziava a montare?
"Tutte
le partizioni storiche contengono un qualcosa di approssimativo, se non di
arbitrario. Servono a fissare nel tempo eventi, per così dire, paradigmatici,
utili a dare il senso e le proporzioni di salti di fase o, addirittura, d’epoca
che in realtà erano da tempo in incubazione: aiutano a capire il senso profondo
del mutamento che era già in fieri, non la sua genesi.
Così è stato
per l’avvento al potere di Ronald Reagan negli Stati Uniti e di Margareth
Thatcher in Gran Bretagna che coincisero con la sconfitta sindacale dei
controllori di volo da una parte e dei minatori di Arthur Scargill dall’altra,
eventi che hanno segnato il declino storico del sindacalismo conflittuale in
quei paesi.
Qualcosa di
analogo, se non altro per le conseguenze che ne sono derivate, è accaduto da
noi, in Italia, sostanzialmente nello stesso periodo, con la drammatica resa
sindacale alla Fiat.
Diciamo, in
una sintesi estrema, che dopo tre decenni dalla fine della seconda guerra
mondiale nel corso dei quali il movimento operaio, i suoi sindacati e le sue
organizzazioni politiche di classe seppero conquistare un avanzato sistema di
protezione sociale, robusti modelli contrattuali, forti dinamiche retributive
e, più in generale, un’egemonia culturale che aveva trasformato le idee di
importanti strati intellettuali, il capitale, rinculato in difesa per decenni,
si riorganizzò e lanciò un’offensiva su scala mondiale, utilizzando una crisi
di sovrapproduzione sempre più sistemica per ristrutturare il proprio modello
di accumulazione e rovesciare i rapporti di forza che l’avevano costretto a
venire a patti.
L’implosione
e quindi il crollo dell’intero blocco sovietico fece poi da detonatore di un
generale rollback dei processi di riscatto ed emancipazione sociale e politica
su scala planetaria.
La sconfitta
del movimento operaio non fu soltanto il ripiegamento su trincee difensive, ma
assunse rapidamente le caratteristiche di una vera e propria capitolazione
ideologica. Passò la convinzione che il capitalismo non è una formazione
economico-sociale storicamente determinata, ma una legge di natura, una
costruzione metastorica, destinata a conchiudere in se stessa ogni processo
evolutivo della società umana: proprietà privata dei mezzi di produzione,
competizione, mercato ne sono gli elementi intrinsecamente costitutivi; le
classi contrapposte da interessi inconciliabili non esistono più, al loro posto
troviamo solo individui; il conflitto è derubricato a patologia delle relazioni
sociali e come tale bandito e represso; viene proclamato il tramonto delle
ideologie, sicché quella delle classi dominanti torna ad essere la sola
“omologata” e di uso corrente.
L’impatto che
ciò produsse nei sindacati fu (ed è) devastante: il salario non è più una
variabile indipendente (come l’articolo 36 della Costituzione pretenderebbe),
ma una merce che si vende a prezzo politico. Una leva di sindacalisti
fu“rieducata” alla pseudo-scienza di modelli negoziali che ne piegano la dinamica
entro algoritmi che annientano ogni autonomia rivendicativa. La rincorsa verso
una sempre più elevata produttività del lavoro e la flessibilità estrema della
prestazione che la rende possibile diventarono sempre più obiettivi condivisi
da entrambe le parti. Il mercato del lavoro diventò un ipermercato delle
braccia non dissimile dal mercato delle patate. Cambiò la natura stessa del
sindacato, trasformato da autonomo soggetto contrattuale a mero mediatore del
consenso verso le gerarchie del sistema d’impresa.
La stessa
cosa avvenne nel sistema politico. La sinistra di impronta socialdemocratica
abbandonò qualsiasi ipotesi di trasformazione del sistema in senso socialista.
Blair, Schroeder, D’Alema, con lo zelo pervicace dei convertiti, tracciarono la
nuova rotta che altro non è se non l’adesione acritica al liberalismo, sussunto
come solo approdo pensabile.
Dove questa
resa senza condizioni abbia condotto è sotto gli occhi di tutti: la crisi, la
disoccupazione, le disuguaglianze stringono quattro quinti dell’umanità in una
tenaglia senza via di scampo e la guerra è la ricetta sempre più praticata
nella riedizione del conflitto fra imperialismi e sub-imperialismi, sino al
riproporsi, come realtà possibile, dell’opzione termonucleare.
Non ha molto senso dire oggi cosa si
sarebbe dovuto fare ieri per arginare questa terrificante deriva. C’è chi l’ha
fatto ed è stato battuto. Il tema vero che è davanti a noi è cosa si può fare
oggi per riprendere il cammino nella situazione data."
Veniamo al
presente: come mai, a suo avviso, in Italia la sinistra non riesce più a
riscuotere consenso tra le fasce più deboli della popolazione, specialmente in
quel mondo del lavoro che dovrebbe rappresentare il suo elettorato di
riferimento? Crede che Rifondazione, nello specifico, paghi l'aver sostenuto le
politiche centriste dei governi Prodi?
"Diffido
da tempo dell’uso disinvolto della parola “sinistra”, divenuta ormai una parola
malata per l’uso che se n’è fatto e che se ne spaccia, per esempio, a proposito
del Partito democratico che altro non è se non un’espressione delle classi
dominanti, socialmente e politicamente organica ai poteri costituiti, custode
fedele delle politiche iperliberiste che ogni sinistra degna di questo nome
dovrebbe invece combattere.
L’annichilimento
della sinistra di classe è il tema che è di fronte a noi. E non vi è dubbio che
l’eutanasia del Pci, consumatasi con la sconfitta, dopo la morte di Enrico
Berlinguer, di un progetto di trasformazione della società italiana in senso
socialista e proseguita con l’abiura occhettiana, abbiano segnato profondamente
la storia italiana. Per un tempo successivo fu il Prc a raccogliere,
parzialmente, quella identità, unendola ad altre soggettività della sinistra
radicale, senza tuttavia riuscire a portare a fondo l’obiettivo della
rifondazione che stava nella sua stessa denominazione, lasciando che
convivessero senza contaminarsi, culture diverse, fra loro giustapposte e non
sempre nella loro migliore espressione.
La
partecipazione al governo Prodi dove i comunisti non contavano nulla e dove il
programma di governo concordato rimase lettera morta ha certo contribuito
seriamente a logorare l’immagine del partito fra gli strati popolari. Come
hanno avuto la loro parte altri gravi errori ed oscillazioni fra estremi opposti,
fra movimentismo ed elettoralismo, e il progressivo affermarsi nel partito di
una sopravvalutazione istituzionalista, nutrita dall’illusione che
l’esposizione mediatica potesse surrogare la ricerca di un più profondo e
organizzato insediamento sociale nel lavoro e la promozione del conflitto di
classe.
Lo sforzo promettente che si sta
faticosamente facendo strada mi pare quello di superare questi difetti che
hanno contribuito a favorire la balcanizzazione della sinistra e la sua
inveterata tendenza a dividersi in prossimità di ogni consultazione
elettorale."
In Spagna,
dal movimento degli Indignados ha preso avvio un processo culminato con la
nascita di Podemos mentre in Francia, la lotta contro la loi travail, ha visto
sorgere il movimento Nuit debout che ha portato Mélénchon, con La France
insoumise, a toccare quasi il 20% alle ultime presidenziali. Come mai in Italia
sembra impossibile poter creare un collegamento diretto e fecondo tra le forze
istituzionali della sinistra e la società civile?
"La nascita
di Podemos e la successiva alleanza denominata Unidos Podemos, la stessa Syriza
nella sua fase ascendente e, soprattutto, la gauche francese che ha trovato la
forza di unificarsi intorno al movimento di La France insoumise, dimostrano che
un programma di profonda trasformazione della società non è per nulla
condannato ad occupare una posizione marginale e minoritaria nello spazio
pubblico, ma può aspirare, proprio in forza del suo carattere radicale, a
parlare e ad essere capito e condiviso da amplissimi stati popolari e
proletari. Queste esperienze dimostrano che nel mondo presente, percosso da una
crisi che morde nella carne viva di milioni di lavoratori e di diseredati, non
ha alcun senso collocarsi, per così dire, “sull’asse medio della curva”, proprio
perché spazi per politiche riformiste non ne esistono più. Il capitale non è
più in grado di venire a patti con nessuna istanza sociale. L’obiettivo che
persegue è quello di una predazione senza precedenti, da fare impallidire i
ritmi e le proporzioni dell’accumulazione originaria, di una messa a mercato di
tutto ciò che può assumere i caratteri della merce e dell’estrazione di
plusvalore assoluto dal lavoro vivo.
In Italia, a
differenza che altrove, non si è trovato l’ubi consistam di un progetto di
società e di un programma politico unificante della sinistra di classe. Il
fatto è paradossale in quanto un patrimonio simile, potenzialmente capace di
unire vasti strati popolari esiste, ed è la legge fondamentale dello Stato, la
Costituzione repubblicana, nata dalla rivoluzione democratica e antifascista,
lasciata in sonno, disapplicata, oltraggiata. Eppure vive in essa, come in
nessun’altra in Europa e nell’intero mondo occidentale, l’idea di una
democrazia fondata sulla primazia del lavoro, sul conflitto di classe come
lievito di una democrazia in progress, sull’imposizione di limiti cogenti alla
proprietà privata, sul primato della “mano pubblica” alla quale competono le
funzioni di programmazione dell’economia finalizzata all’interesse sociale; un
progetto di nuova società che guarda al futuro, salda libertà ed uguaglianza e
offre una tavola di valori alternativi attraverso i quali fondare una comunità
solidale del lavoro.
E’ questa eredità che va riafferrata con
mano salda, per farla divenire il manifesto di un progetto politico
alternativo, confliggente con l’oligarchia capitalistica che domina il nostro
paese e l’intero continente europeo."
Veniamo
all'Europa. L'UE di Maastricht e del Trattato di Lisbona, ormai dovrebbe essere
chiaro a tutti, si fonda su basi competitive e per nulla cooperative. A mio
avviso, all'interno di questa struttura di potere non c'è spazio per la
sinistra, a meno che non si consideri sinistra la terza via di Blair e tutte le
forze che ancora oggi, nonostante il suo conclamato fallimento, la prendono
come stella polare. E' d'accordo?
"Direi,
per non alimentare equivoci, che l’Europa costruita sul telaio del suo Testo
unico e degli accordi iugulatori che stanno stringendo il cappio al collo dei
popoli europei, violandone le costituzioni nazionali ed espropriandone la
sovranità, non è riformabile dall’interno. E questo per il semplice motivo che
la ragione sociale, la missione dei gruppi capitalistico-finanziari dominanti
che ne hanno forgiato il progetto politico non è negoziabile, come dimostra la
drammatica vicenda che ha opposto il governo greco all’Ue, conclusasi con la
resa incondizionata di Syriza alla Troika e al terzo memorandum che sta
stritolando anche il più modesto residuo di protezione sociale di quel paese.
Ci sono una plateale ipocrisia ed una
plateale falsificazione nella retorica esaltatrice dell’Unione, come se essa
avesse qualcosa a che fare con l’europeismo dei popoli invocato dopo la fine
della seconda guerra mondiale, come se il pugno di finanz-capitalisti che
dell’Ue sono i proprietari assoluti avesse qualcosa da spartire con il
Manifesto di Ventotene di Spinelli, Rossi e Colorni, nel quale si parlava di
Stati socialisti d’Europa, di lotta alle oligarchie finanziarie, di giustizia
sociale, di statalizzazione di ampie branche dell’economia, di terra ai
contadini e fabbriche agli operai."
Molti
economisti eterodossi sostengono, e non da oggi, che la moneta unica sia parte
integrante del progetto neoliberista di smantellamento dei diritti e di competizione
che deve giocarsi sulla pelle dei lavoratori attraverso la svalutazione
salariale. Non ritiene che il tema della moneta, centrale nella narrazione
delle destre xenofobe e sovraniste, dovrebbe essere considerato con grande
attenzione anche dalla sinistra radicale? Ricordo, a tal proposito, la dura
opposizione che fece il PCI nel 1979 quando la DC e i suoi alleati portarono
l'Italia dentro lo SME, nella consapevolezza che entrare in un sistema di cambi
fissi avrebbe fatto addossare agli incrementi salariali la colpa di una
possibile perdita di competitività delle imprese.
"Anche
su questo argomento conviene venire in chiaro.
E’ del tutto
evidente che non è la moneta, in se stessa, che decide del regime sociale di un
paese. Sostenerlo significa avventurarsi in un ginepraio di sciocchezze:
vivevamo nel capitalismo quando c’era la lira, siamo nel capitalismo con l’euro
e nel capitalismo resteremmo ove si tornasse alla moneta nazionale. Ciò che
bisognerebbe finalmente capire è che l’euro rappresenta, per così dire,
l’instrumentum regni, vale a dire un pezzo fondamentale dell’architettura
monetarista forgiata e governata dalla Banca centrale attraverso la quale si
subordinano il lavoro al capitale, il Sud al Nord del continente, i paesi
debitori ai paesi creditori, i diritti sociali alle immarcescibili leggi del
mercato. Le “tavole della legge” europea (rapporto debito-pil al 60%, deficit
al 3%, e fiscal compact) e la moneta rappresentano un tutt’uno indivisibile.
Avere persuaso che la moneta è un elemento neutrale della costruzione europea è
uno dei più stupefacenti successi ideologici delle classi dominanti.
Uscire
dall’euro significherebbe segare i paletti di ferro della gabbia e riaprire lo
spazio oggi precluso di una battaglia per la riconquista di una sovranità oggi
negata. La cosa peggiore che si può fare è abbandonare alla destra razzista il
tema della sovranità popolare che – lo si ricordi – sta scritta nell’articolo 1
della nostra Costituzione.
Per dirla con
le parole di Mimmo Porcaro, “Quando la dissoluzione della sovranità nazionale
non mette capo ad una democrazia sovranazionale ma al dominio delle nazioni più
forti, la rivendicazione della sovranità non è un regresso agli albori
dell’assolutismo, ma un progresso verso la riconquista della democrazia”.
Naturalmente è necessario unire a questa
battaglia un programma economico e politico capace di difendere i redditi e i
diritti dei lavoratori (indicizzazione dei salari, riduzione dell’orario di
lavoro a parità di retribuzione, ecc.), l’esatto opposto della tradizionale
politica di ogni formazione della destra."
Nell'ultimo
periodo, sia da destra che da sinistra si parla spesso, come rimedio alla crisi
della domanda, di reddito di cittadinanza. Il prof. Raoul Kirchmayr, a tal
riguardo, ha scritto un articolo molto interessante uscito su
L'Espresso in cui, in sintesi, sostiene che il nesso tra povertà e reddito
di cittadinanza abbia mutato il senso di quest'ultimo che «non si rivela più
come un progetto di inclusione (dunque un provvedimento di ampliamento dei
diritti democratici materiali) quanto un intervento-tampone per limitare la
sofferenza dei ceti più attaccati dalla crisi» ed inoltre, per rendere
significativo tale nesso «occorre metterne in ombra un altro, cioè quello
relativo al rapporto tra democrazia e lavoro, che innerva il dettato della
nostra costituzione». La messa in ombra di tale rapporto, continua il prof.
Kirchmayr, ha come scopo quello sostituire il diritto al lavoro con il reddito
di cittadinanza , riconoscendo al povero, visto come un peccatore «un diritto a
reddito sussidiato solo se si piega a quella logica economica che ha fatto di
lui ciò che è, cioè un povero». Qual è la sua opinione in merito?
"La mia
opinione al riguardo è molto netta, anche se minoritaria nel campo esteso della
sinistra.
Lo dirò nel
modo più semplice: la cittadinanza e i diritti ad essa collegati non vengono
dal reddito, ma dal lavoro che – ricordiamolo – per la nostra legge
fondamentale non è soltanto il corrispettivo di un emolumento salariale, ma un
elemento costitutivo della personalità umana. Per questo la nostra Costituzione
porta scritto nel fondamentale articolo 4 che “la Repubblica riconosce a tutti
i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo
questo diritto”. Per questo continuiamo a batterci affinché nessun lavoratore
possa essere licenziato senza giusta causa o giustificato motivo. Per questo
ogni programma politico e sociale di una sinistra di classe non può che mettere
al primo posto l’obiettivo della piena occupazione, contro il capitale che, al
contrario, pretende la totale e incondizionata disponibilità della forza
lavoro, in entrata e in uscita, necessaria per disporre di un “esercito di
riserva” che in ogni momento prema ricattatoriamente sulla manodopera occupata.
Inserire un
reddito di cittadinanza, o come altrimenti lo si voglia definire, significa
rinunciare ad affermare il diritto di ognuno ed ognuna al lavoro, ripiegare
dentro una logica assistenzialistica, più prossima alla “leggi sulla povertà”
di vittoriana memoria, mai ostili all’organizzazione capitalistica del lavoro e
che infatti trovano diverse applicazioni in Europa, mentre politiche di
riduzione dell’orario di lavoro incontrano la più fiera opposizione delle
classi dominanti."
Fabio Cabrini
facciamosinistra!
13 maggio 2017
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