TESI B
Rinnovare il partito e il suo progetto politico
“Puoi fare
tutte le manifestazioni che vuoi sull’articolo 18,
sulla pace, sui diritti dei cittadini, su una
giustizia giusta,
ma se queste manifestazioni
non si sedimentano, se non
vi è un
progetto politico, se non vi è un partito politico
capace di
raccogliere queste esperienze - come dimostra
la storia di
questi anni – ogni patrimonio politico rischia di disperdersi”
(Lucio Magri)
1. Che nessuno
dentro il Prc abbia in testa di sciogliere il partito è cosa per noi assodata.
Persistere nell’animare il sospetto opposto, riprodurre fra le nostre
sparpagliate file una disputa del genere è un atto di imperdonabile
autolesionismo che equivale ad un suicidio politico degno di un funerale di
terza classe.
Detto questo, confutare la
tesi di chi paventa questo esito con l’argomento che “il congresso si tiene
perché il partito c’è” è un truismo, un’escogitazione retorica che, come tale,
non spiega niente e – soprattutto – rivela una reticenza ad analizzare lo stato
reale del partito in evidente crisi politica e organizzativa, documentata dalla
continua erosione degli iscritti, dalla scomparsa di molti circoli quando non
di intere federazioni, dalla sopravvivenza solo sulla carta di altre strutture,
dalla fragilità delle culture politiche che pochi si stanno sforzando di
superare, dalla percezione diffusa a livello di massa che il partito non c’è,
se non come residuo nostalgico di un passato irripetibile e per giunta non desiderabile.
La cura del partito, più
volte evocata, ha trovato scarsissima eco nelle nostre strutture intermedie,
anche in ragione di una catena di direzione lasca, dove ad un indirizzo deciso
non consegue quasi mai una conseguenza operativa.
Ne sono un eloquente esempio
le decisioni formalmente assunte nella IV Conferenza di organizzazione.
Citiamo: “Organizzare, entro
il 2015 le conferenze regionali delle lavoratrici e dei lavoratori”;
“Organizzare dai livelli regionali o interregionali scuole di formazione
politica da tenersi entro ottobre 2015”; Rendere operativi tutti i
dipartimenti, diffondendo il loro programma ed eventuali progetti…”;
“Costituire un gruppo di lavoro che prepari la conferenza delle donne…”;
“Costituire un gruppo di lavoro che prepari una conferenza sul mezzogiorno, che
rifletta sui termini attuali della questione meridionale…”. Per tacere dell’annuncio
per ben due volte reiterato nell’arco di un anno di una ripresa del nostro
quotidiano on-line di cui mancavano le più elementari premesse e che infatti
continua a non esistere.
Qualcuno si è preso la briga
di verificare le ragioni per cui nessuno di questi adempimenti ha avuto corso?
Malgrado
tutte le affermazioni di segno contrario, molta parte di ciò che resta della
nostra struttura organizzata ha creduto di colmare il proprio deficit politico
e organizzativo o isolandosi dentro pratiche settarie o cercando scorciatoie
politiciste nella speranza di guadagnare una qualche visibilità elettorale.
Il fatto è che la cura del
partito diventa cimento reale solo se incardinata su un disegno che lo vede
come protagonista essenziale (e non dissimulato, diluito, edulcorato) di una
iniziativa e di una lotta politica e sociale sul territorio e se lavora alla
costruzione di un coerente sistema di
alleanze politiche e sociali.
Se questo non c’è, se il fine
non è chiaro ai militanti, anche l’attivismo organizzativo del gruppo dirigente
rimbalza su un muro di gomma e si risolve – nel migliore dei casi - in forme di
confusa e stanca sopravvivenza.
2. La
giustapposizione eclettica delle istanze più varie di ribellismo politico ha
dato luogo, nel partito, ad un singolare sincretismo che non è mai sfociato in
una ideologia forte (nell’accezione positiva del termine) e non ha risolto il
problema della ridefinizione di un paradigma teorico e politico all’altezza
delle contraddizioni aperte nel tempo presente.
I due cardini intorno ai
quali lavorare per ricostruire le basi di una cultura politica condivisa e per dare
un senso all’ambizioso compito della rifondazione sono le due originarie
istanze di universalizzazione proprie del comunismo marxiano: la
socializzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del potere, ovvero
il superamento del rapporto gerarchico e unidirezionale fra governanti e
governati, stelle polari capaci di orientare tanto l’analisi critica della
nostra storia, quanto di collocare nella giusta direzione i compromessi imposti
dalla concretezza delle condizioni date, fuori dal pragmatismo fine a se stesso
e dall’estremismo dei “costruttori di soffitte”.
O la rifondazione comunista
passa di qui oppure resta un’istanza tanto pretenziosa quanto velleitaria e
sideralmente lontana da qualsiasi possibilità di incidere sulla realtà.
La prassi sociale senza una
teoria che la sostiene si risolve in un attivismo generoso ma privo di sbocchi;
la teoria fine a se stessa non scopre più niente, diventa un breviario di
frasi, una manifestazione di feticismo ideologico che ha lo stesso peso di una
predicazione.
3. La spiegazione
che è stata fornita per spiegare il fallimento del “tavolo nazionale unitario”,
nato con l’ambizione di dare vita alla costituente di un polo della sinistra, riconduce
tutto al “settarismo e all’ambiguità politica di Sel” e “alla incapacità dei soggetti costituenti di
porre sul terreno dell’innovazione la questione delle forme del soggetto
politico da costruire”. Per questo – si è affermato – “occorre percorrere altre
strade che si pongano l’obiettivo di conferire “credibiltà costituente” ad un
soggetto politico della sinistra antiliberista, “attraverso un effettivo
processo partecipato e democratico”.
In realtà, il fallimento del
processo costituente unitario ha la sua origine nell’illusione di potere
costruire uno schieramento “a maglie molto larghe” (o “a bassa soglia
d’ingresso”, che dir si voglia) connotato da un vago progetto politico.
La stessa anteposizione della
forma organizzativa del nuovo soggetto (una testa un voto, cessione di
sovranità) ai contenuti che avrebbero dovuto connotarne il profilo politico ha
presto prodotto un cortocircuito evidenziatosi quando i nodi più rilevanti
(l’autonomia del soggetto in fieri, il rapporto con il Pd) sono venuti al
pettine.
Il passaggio repentino dal
già claudicante modello de l’ “Altra
Europa” al tavolo dei soggetti politici organizzati, presto ridottosi ad un autoreferenziale
direttorio, ha decretato la morte annunciata e comunque prevedibile del
progetto.
Alla base del fallimento non
è stato, dunque, “l’imprevedibile tradimento di Sel”, quanto piuttosto la sua evidente
propensione per un progetto politico (o forse
per un’idea di società) alquanto diverso da quello da noi perseguito.
Allo stesso modo, mentre
l’esodo dal Pd di alcune figure di cui è stato sovrastimato il potere
carismatico alimentava le nostre aspettative, coloro che credevamo nostri
potenziali alleati si sono nettamente smarcati dando vita a Sinistra italiana,
con il dichiarato obiettivo di ricostruire il centrosinistra all’interno di un progetto
neo-riformista.
Insomma, il “figliol prodigo”
non tornava affatto, ma tesseva la sua tela e imboccava una strada opposta a
quella da noi immaginata.
Il nostro (recidivante)
errore è stato quello di ritenere che più si attenua l’identità comunista, più
si edulcora la nostra proposta, più si accondiscende all’altrui richiesta di
mimetizzare la nostra presenza sino a renderla invisibile e più si fa unità,
più si aprono spazi nella battaglia per l’egemonia.
In un vorticoso giro di
valzer, abbiamo continuato a cercare, di volta in volta, soli diversi attorno
ai quali ruotare, in una collocazione nei fatti subalterna, subita nella
persuasione di dovere surrogare il nostro deficit di appeal con qualche protesi
esterna.
Quanto ai contenuti di questi
variopinti rassemblement, la ricerca
è stata sempre piuttosto vaga, sulla scia del convincimento che andare per il
sottile avrebbe fatto morire il bambino nella culla.
Così è accaduto, ogni volta,
che il bambino, affetto da strutturale gracilità, si è schiantato subito dopo
il primo vagito, quando non addirittura durante la gestazione. Fuor di
metafora, la dura esperienza ci ha mostrato che le operazioni politiciste,
prive di base sociale e di vero progetto politico, producono sempre improbabili
accrocchi e fragorosi insuccessi.
Si è anche cercato di
aggirare la questione cruciale del programma con formule lessicali
all’apparenza radicali, contrassegnate dal sigillo dell’antiliberismo.
Peccato che l’incerta
semantica del termine non sia riuscita a spazzare via l’eterogenesi dei fini
che si nascondeva dietro la formula solo in apparenza radicale e unificante.
Il fatto è che non si sfugge
al tema di fondo: se non è chiaro dove si vuole andare è del tutto vano
scapicollarsi nella ricerca di fantasiose ricette organizzativistiche.
La fondamentale correzione da
introdurre nella nostra linea politica è che
non serve una costituente che
possa unire solo sulla base dell’alternatività al Pd. L’interlocuzione deve
guardare altrove e il Prc deve porre se stesso, senza complessi di inferiorità,
al centro di questa ricerca.
4. La tesi che
contestiamo afferma più meno questo: “il liberismo è la forma storica presente
del capitalismo, per cui contrapporre la nozione di capitalismo a quella di
liberismo è una pura disputa nominalistica priva di concreto significato”. E
ancora: “la coalizione antiliberista è più aggregativa di quella
anticapitalista, dunque è senz’altro preferibile se l’obiettivo è quello di
costruire un fronte ampio contro l’austerity”.
Ora, se fosse vero che i due
termini si equivalgono non vi sarebbe alcuna differenza di potenzialità
attrattiva fra l’uno e l’altro. Ma, in realtà, è da discutere se la possibilità
di dispiegare tutta la strumentazione critica potenzialmente a nostra
disposizione rappresenti una remora e non invece una ricchezza, un elemento di
forza perché dotato di una superiore capacità di lettura della realtà.
Oggi sotto l’ombrello dell’antiliberismo
si dislocano, in ordine sparso, forze, soggettività, tendenze culturali che
coprono una latitudine politica che va dalla sinistra radicale all’estrema
destra. Un’eventuale coalizione antiliberista o non dice molto circa il
progetto politico su cui fa leva oppure sorvola sul fatto che di progetti ne
esistono diversi e, come si è visto, spesso opposti e inconciliabili, persino
all’interno dello stesso schieramento.
Lo dimostra il fatto che
sull’evanescenza del progetto politico, sull’eterogenesi dei fini dei soggetti
che troviamo in questo campo si sia consumata una rottura.
Quanto più chiaro e pregnante
sarebbero un progetto ed una coalizione di forze riconoscibili nella loro
identità che si proponessero il pieno recupero ed attuazione della Costituzione del ’48, con un baricentro
ben piantato nella questione proprietaria, dunque sviluppando sino alle estreme
conseguenze i temi socialmente più avanzati contenuti nei principi fondamentali
e nel Titolo III della Carta!
Per lungo tempo quel testo è
stato smarrito, o sottovalutato, da alcuni svilito in una sorta di icona
inerte, da esibirsi nelle celebrazioni retoriche, del tutto priva di concrete
conseguenze; da altri, che pensano non valga la pena impegnarsi per meno della
rivoluzione, snobbato come un un tiepido compromesso di impronta borghese,
trascurando che proprio nella Costituzione vive un impianto di classe ben più
robusto che in tante superficiali declamazioni di antiliberismo.
La Costituzione non è infatti
soltanto un coerente progetto statuale incardinato su un poderoso sistema di
valori. La Costituzione è anche un ben delineato progetto di società e di
sviluppo progressivo della democrazia.
La sua impalcatura
progettuale, opposta all’ordinamento europeo e alla primazia del capitale sul
lavoro ha oggi più di ieri un’efficacia dirompente se impugnata come paradigma
politico, economico e sociale alternativo all’ordine dettato dall’onnivora
rapacità del capitale.
La reviviscenza del progetto
costituzionale, massimamente dopo il successo ottenuto nel referendum
costituzionale, ha in sé la forza di unire gli strati sociali colpiti dalla
crisi, parlare ai proletari e al tempo stesso discriminare senza ambiguità fra
tutti i soggetti politici e sociali.
La Costituzione è il filo
rosso che lega indissolubilmente questione democratica e questione sociale,
libertà e uguaglianza. E che offre ai comunisti il terreno più favorevole per delineare
la via di un processo di transizione e porre a tema il superamento di rapporti
sociali capitalistici.
Basta, dunque, con gli
espedienti tatticistici con cui sino ad oggi si è immaginato di rifondare la
sinistra mettendo intorno ad un tavolo soggetti in cerca d’autore, contenitore
senza contenuti.
Il paradigma va rovesciato
perché, per una volta, invertendo l’ordine dei fattori il prodotto cambia.
Prima viene il progetto
politico, e precisamente quello incardinato nella Legge fondamentale che
abbiamo per così dire, “riconquistato” in uno scontro campale e che, a leggerla
bene, non fa sconti a nessuno.
Il compito inevaso che chiede
di essere svolto da una sinistra non addomesticata dalle sirene renziane,
estranea e ostile al definitivo approdo liberale del Pd, è quello prefigurare
un blocco sociale e politico alternativo alle due destre in cui si articola la
rappresentanza delle classi dominanti, in Italia e in Europa, una coalizione di
soggettività politiche diverse, tutte chiaramente visibili nella propria
identità e autonomia, eppure tutte solidalmente unite nella realizzazione di
quel disegno.
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